Il gioco del poker eccitava la fantasia di noi ragazzi, ci faceva sperare e credere che nel gioco e nella vita quindi, l'astuzia, l'intelligenza, la scaltrezza e la furberia contassero, e tanto anche. Per questo nessuno intuì sul momento che l'enunciazione fattaci da Miro Gentili alle cinque del mattino fosse una profonda verità e non la frase di un uomo deluso e pieno di alcool.
Vladimiro (Miro) era padre del nostro amico Mirco ed amava intrattenersi con noi adolescenti che inevitabilmente subivamo il fascino del grande giocatore. Quella notte ci spiegò il funzionamento del gioco:-Ragazzi, una sera esci per fare una partita a poker e perdi; la sera successiva riprovi e perdi ancora; la terza sera vai a giocare pensando che ormai vincerai, invece perdi tutto; esci e vai a giocare per un mese di fila e perdi ancora; insisti per un anno e perdi sempre.-
Allora, anni settanta, ci si entusiasmava per notizie di rilanci favolosi che costringevano a passare con un poker d'assi in mano, o per le conseguenze tragiche di perdite disastrose o per recuperi miracolosi sempre difficili da verificare. Ognuno poi portava la sua esperienza diretta. Questa era la mia: al poker che si giocava a Serripola, da Ivo, si poteva assistere a condizione di mantenere il più assoluto silenzio. Si verificò una mano in cui tre giocatori, fin dalla fase dell'apertura, con una serie impressionante di rilanci fecero sì che il piatto si gonfiasse a dismisura. Bruno si ritirò, ma Lino de Cetorétta e Mimì de Buttafóco continuarono ad alzare la posta. Al momento della verifica Mimì (quattro K) chiese al Cetorétta: - Che c'hai?- Lino, beffardo sistemò con cura le carte sovrapponendole sul tavolo in modo che fosse visibile solo l'asso di picche e, indicandolo col dito indice, così rispose a domanda:-De isti ce n'è 'n macéllo!-
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